giovedì 30 marzo 2006

Riflessioni: Se Mary fosse un tonno

Una commissione di esperti si è riunita ed ha espresso il suo parere sull’eventuale tentativo di ritorno di Mary G. in mare. Il verdetto, per niente inaspettato, è stato che Mary dovrebbe restare in vasca. Ha perso la madre troppo presto, ed è stata, giovanissima, inserita in un contesto estraneo e artificiale. Presumibilmente non sa cacciare, non sa difendersi, non sa nemmeno come “inserirsi” in un gruppo sociale di altri grampi, ammesso che se ne trovi uno e che questi la accettino. Tante, forse troppe incognite.

Ma qualunque sia il destino di Mary, in mare o in vasca, questo non deve intaccare il valore di quanto è stato fatto. Tutte le esperienze del genere vissute in passato, ci hanno insegnato che un delfino che si spiaggia o che cerca un rifugio inusuale come un porto o un canale, ha infinitesime possibilità di cavarsela. Con Mary abbiamo visto che quell’infinitesima possibilità vale comunque la pena di giocarsela. Nel senso che ce la si può fare.

Anche se, forse, almeno per quanto mi riguarda, il senso di queste operazioni andrebbe rivisto, e ri-valutato con attenzione. Ecco cosa mi ha lasciato dentro tutta la storia Mary. Il dubbio, lo scricchiolare di alcune convinzioni. Ha senso davvero, spendere montagne di ore, fatica e tanti, tanti soldi per salvare chi la natura aveva deciso di escludere? Non ho una risposta chiara, ma almeno adesso la sto cercando e non mi sembra più così scontata.

Non mi sembra più così scontato ed indiscutibile che se si trova un delfino morente su una spiaggia, si deve fare di tutto, a tutti i costi, perché questo sopravviva. In passato ho cercato di mettere in fila le motivazioni che spingono a questo gesto, pensando che trovarne una valida o almeno plausibile risolvesse la questione. Ma non è così. La motivazione può essere ottima, ma subito dopo bisogna anche darle un senso: le due cose sono facce della stessa ma non sono identiche, e la seconda non deriva strettamente e automaticamente dalla prima.

Le motivazioni che spingono verso un intervento di recupero mi pare si possano ricondurre a tre categorie: motivi legati alla tutela e alla conservazione, motivi scientifici e motivi etici.

Il tentativo di salvare un esemplare di Cetaceo in difficoltà può apparire direttamente collegato con la conservazione, in realtà lo è, ma solo in maniera indiretta. Un esemplare spiaggiato non ha, dal punto di vista ecologico, nessun valore. Da una parte esso è stato, in qualche modo, rifiutato, eliminato dal suo ambiente naturale. Paradossalmente, intervenire per restituirlo al suo ambiente, può in questo senso apparire quasi come un intervento “contro natura”. In seconda battuta, a livello di conservazione della specie, o anche solo di una popolazione, il restituire al suo ambiente un solo esemplare non ha nessun effetto per la sopravvivenza della popolazione interessate, tanto meno della specie. Indirettamente però, l’emozione, l’interesse che questi interventi suscitano, possono avere importanti ripercussioni a livello di sensibilizzazione del pubblico verso certe tematiche. Quindi un apporto indiretto, appunto, alla causa della tutela delle specie.

Non troppo disgiunto da questo è il fatto che esemplari che forzatamente restano per periodi più o meno lunghi sotto l’osservazione del team, rappresentano una possibilità per ottenere informazioni (di tipo fisiologico, anatomico, comportamentale, eccetera) su essi stessi e sulla specie cui appartengono. Lo studio degli animali marini in genere, e anche dei Cetacei, è un’impresa difficoltosa anche e soprattutto per la mancanza di materiale su cui fare ricerca. E la ricerca scientifica, cioè la necessità di conoscere a fondo ogni caratteristica delle specie studiate, è un presupposto fondamentale per l’elaborazione e la strutturazione di progetti di conservazione solidi.

A tutto ciò si aggiungono le motivazioni etiche degli interventi sui Cetacei in difficoltà. In primo luogo ci si riferisce al fatto che, anche se in maniera molto indiretta, anche se in modo spesso nascosto e difficilmente indagabile, può succedere che lo spiaggiamento di un Cetaceo sia il risultato, magari indiretto si diceva, dell’interazione con una attività antropica (inquinamento di ogni tipo, interazioni con strumenti da pesca, disturbi in senso lato, collisioni, e altro). Ancora più forte è una motivazione morale semplicemente di compassione umana. Come esseri umani, e anche come persone che lavorano per la tutela di specie ed ambienti naturali, può risultare impossibile non intervenire cercando di fare il possibile affinché un animale sofferente non sia lasciato al proprio destino.

Riassumendo e semplificando in maniera forse brutale, diciamo allora che si interviene su un delfino spiaggiato per

1) ottenere un indiretto, e anche poco quantificabile per la verità, effetto per la causa della conservazione delle specie (tramite ricerca scientifica e sensibilizzazione) e

2) rispondere alla parte umana e compassionevole della nostra natura

3) Non nascondiamoci dietro a un dito e aggiungiamo pure che un terzo obbiettivo è molto meno etico ma pur sempre fondamentale. L’esposizione mediatica che un intervento come quello su Mary può regalare a un ente come la Fondazione Cetacea, rappresenta linfa vitale per ottenere l’attenzione da parte del pubblico e soprattutto di possibili sostenitori, finanziatori, sponsor.

Non è di poco conto ora cercare di capire in quale misura queste tre spinte all’azione agiscono nella scelta “interventista”. Perché un intervento di lunga degenza, e di successo, come quello della piccola Mary G., costa qualche decina di migliaia di euro, per non parlare dell’investimento di tempo, energie, oltrechè emozionale, che richiede. E si deve, brutalizzando ancora la questione, praticare la mai superata analisi costi/benefici. Restituire un delfino al mare, o anche solo alla vita, “vale” questo investimento? Ha senso spendere e spendersi tanto, per la vita di un essere vivente (vita che secondo natura sarebbe già cessata)?

Attenzione alla risposta, che non deve essere così scontata come può apparire. “Una vita non ha prezzo” è una risposta troppo semplicistica e manca di riflessione. Spendereste 30.000 euro per salvare un ratto, un pappagallo, un cervo volante? Perché è anche questo il problema: ci sono animali che valgono più di altri?

Mi ricordo quando nel 2002 siamo intervenuti su un grande pesce luna spiaggiato vivo a Riccione. Era un animale splendido, un enorme creatura che non sapevamo come aiutare. L’abbiamo spinto al largo dove è morto due giorni dopo, rispiaggiandosi. Abbiamo cercato di aiutarlo come potevamo, ma non ci è mai passato per l’anticamera del cervello di allestire una vasca di fortuna, o di riattivare un delfinario in disuso per provare a salvarlo. E allora, dove sta la discriminante? Perché un delfino sì e un pesce luna no?

Se Mary fosse stata un tonno avremmo mosso tutto la macchina che abbiamo avviato per Mary? E i tonni sono molto più minacciati in Adriatico e in Mediterraneo che non i grampi. Perché conservazione indiretta e sensibilizzazione qui non sono più argomenti validi? Per il pesce luna la “molla” della ricerca scientifica e delle importanti informazioni che avremmo potuto ottenere non è scattata (eppure di pesce luna ne sappiamo proprio poco), come mai?

Perché si legge spesso di mobilitazione di massa, si task force che intervengono (pensate al caso dell’iperodonte del Tamigi di qualche mese fa) solo quando si parla di Cetacei? La vita di un delfino vale più di quella di un branzino? Perché per alcune specie lasciamo che la “natura faccia il suo corso” e per altre no? Non sono certo qui per dare delle risposte, ma per fare in modo che certe domande vengano almeno poste.

All’ultimo convegno dell’European Association for Aquatic Mammals ci è stata raccontata la bella storia di Clyde, il grampo adulto curato per mesi in Florida e finalmente rilasciato in mare nel febbraio scorso. E non ho potuto fare a meno di notare, forse proprio a seguito di queste riflessioni che dal dopo Mary mi rincorrono, allo sproposito fra le forze e i mezzi messi in campo e il risultato ottenuto. Soldi, fatica, lavoro e impegno enormi, per un delfino in più in mare. E scusatemi se per il momento, non sono sicuro che ne valga la pena.

martedì 21 marzo 2006

News: il parere degli esperti sul rilascio di Mary G.

Domenica scorsa, nel tardo pomeriggio, si è svolta la tavola rotonda per valutare il futuro di Mary G., la piccola delfina (grampo) recuperata il 19 giugno scorso nel porto di Ancona con la mamma, che poi è morta dopo due giorni, e che è stata "salvata" dalla Fondazione Cetacea. La riunione è stata addirittura più breve di quanto pensassimo, in quanto tutti gli esperti convocati, tra cui Sam Ridgway (Università di San Diego California USA), Joseph Geraci (Università del Maryland USA), Paul Nachigall (Università delle Hawaii USA), Charles Manire (Mote Lab Sarasota Florida USA) erano unanimi nel ritenere quanto segue:

Dopo attenta valutazione all'unanimità si ritiene nel suo interesse che Mary G. non possa ritornare in mare.

Tale parere è dovuto alle seguenti motivazioni:

  • L'esemplare è considerato non svezzato al momento dell'inizio della riabilitazione.
  • I Grampi (Grampus griseus), come altre specie di delfini, dipendono dalle cure materne e il processo di apprendimento è complesso e dura diversi anni;
  • L'uomo non può insegnare a Mary G tutto quanto è necessario a garantirne la sopravvivenza;
  • I precedenti rilasci di delfinidi di simile età sono falliti.
Ora queste valutazioni, assieme alla documentazione relativa, verranno inviate al Servizio Conservazione della Natura del Ministero dell'Ambiente che dovrà prendere la decisione finale sul futuro di Mary G. stessa.

martedì 14 marzo 2006

Racconti: la storia di Alba

La Fondazione Cetacea gestisce un Ospedale delle Tartarughe; un centro di recupero per tartarughe marine che necessitano di cure. Nelle vasche di questo ospedale passano ogni anno 15-20 Tartarughe comuni, della specie Caretta caretta, che qui vengono curate e poi una volta ristabilite, restituite al mare. Queste silenziose ospiti arrivano, spesso sofferenti, sebbene il loro dolore sia per noi quasi indecifrabile, stanno in nostra compagnia a volte per poche settimane, a volte anche per parecchi mesi, e alla fine di loro non ci rimane che una scheda in un archivio e delle foto. Ma alcune di loro hanno, loro malgrado, delle storie da raccontare…

Alba, per esempio. Dal 1997 al 2000 Alba era diventata oramai un’istituzione, un punto fisso, la mascotte indiscussa del centro.
Alba era un giovane esemplare di Tartaruga comune con una triste storia che comincia alla fine di luglio del 1997 quando, in una località vicino a Venezia, presso un centro di allevamento di mitili, Alba viene ritrovata, agonizzante per una tremenda ferita che le attraversa il carapace, cioè la parte superiore del guscio. Probabilmente un’elica o la chiglia di un’imbarcazione l’hanno colpita. La ferita è grave e profonda. Viene recuperata dalla Capitaneria di Porto di Venezia e, tramite una staffetta con gli agenti del Corpo Forestale dello Stato di Forlì, consegnata alla Fondazione Cetacea.
La diagnosi non è buona: la ferita è molto ampia e difficilmente potrà cicatrizzare, inoltre è abbastanza profonda da aver raggiunto la colonna vertebrale e infatti Alba ha grosse difficoltà di movimento delle natatoie, cioè le zampe, posteriori. In pratica, è semi-paralizzata.
Va seguita e medicata quotidianamente e costantemente da un veterinario qualificato. La nostra veterinaria di allora, la dott.ssa Carlotta
Gaio, decide quindi di portarsela via con sé, nel suo ambulatorio di Milano. E’ in buone mani ma decisamente non nutriamo molte speranze.
Eppure i giorni passano e l’attesa triste notizia non arriva. Carlotta ci tiene costantemente informati: dopo un preoccupante periodo iniziale, le sue condizioni migliorano ma molto lentamente e la ferita, mantenuta chiusa e soprattutto asciutta tramite una “toppa” di resina e plastica, periodicamente ricambiata, si sta chiudendo. Ci vuole più di un anno, ma alla fine, nel novembre del 1998 Alba rientra a Riccione. La ferita è richiusa, Alba sta bene ma le sue zampe posteriori sono ancora semi-paralizzate. Non sappiamo come se la caverebbe in mare, anche se conosciamo casi di tartarughe marine che sopravvivono anche con le natatoie posteriori amputate. Facciamo delle prove immergendola in un acquario da 8000 litri. La prova non va bene: Alba fatica molto a venire a galla a respirare, si muove con difficoltà. Quando poi uno dei pigri e grassi squali nutrice che stazionano spesso inerti sul fondo della vasca, le nuota dietro cercando di morderle le esanimi zampe posteriori, decidiamo che non è più il caso di insistere. Viene chiesto ed ottenuto l’affidamento permanente all’Ufficio CITES del Corpo Forestale dello Stato (che si occupa della detenzione di specie protette).
Abbiamo ormai realizzato che Alba non potrà più tornare in mare; e diventa così un testimone, un simbolo dei danni che la presenza invadente dell’uomo possono provocare sulle creature marine. Nel 1999 Alba ha una vasca tutta sua, proprio all’interno della mostra sulle tartarughe marine allestita al Delphinarium Riccione. Migliaia di bambini e visitatori la vedono e apprendono la sua storia e, sicuramente, riflettono… Per due anni Alba ha raccontato più di ogni parola che le tartarughe marine sono in pericolo, muoiono e soffrono anche a causa nostra. Ha ricoperto, suo malgrado, un compito importante che dava un po’ un senso alla sua permanenza forzata.
E invece, nel frattempo, quello che sembrava irreparabile lo è diventato sempre meno: le sue zampe posteriori lentamente hanno riacquistato qualche movimento e sembrano almeno aver ripristinato grossolanamente la loro funzione di timoni del nuoto. Dopo ore passate a discutere e a consultare esperti una nuova decisione viene presa: Alba può tornare in mare.
Il 12 ottobre 2000 è il gran giorno. Siamo emozionati e pur avendo assistito a decine di ritorni in mare delle nostre pazienti, mai come in questo caso ci chiediamo come andrà a finire, che fine farà Alba. Ce la farà? Una volta messa in acqua, mentre con un groppo in gola la vediamo allontanarsi, non possiamo fare altro che sperare. Siamo comunque ebbri di gioia, ma alla gioia del ritorno alla vita di un’amica si unisce la triste consapevolezza che quasi mai queste storie finiscono così bene. Alba scompare nelle acque torbide dell’Adriatico, dopo pochi attimi. Dobbiamo rassegnarci al fatto che non ne sapremo mai più nulla, il che ci consente comunque di immaginarla mentre nuota, ormai cresciuta, nel suo mare. Una tartaruga come tante, con una lunga cicatrice sul dorso.

venerdì 3 marzo 2006

News: Clyde è tornato in mare

Il 16 luglio 2005, cinque grampi (Grampus griseus) si erano spiaggiati in una località chiamata Caxambas Pass, in Florida. Uno morì subito, ad altri due fu praticata l'eutanasia per le loro condizioni disperate. Gli ultimi due furono trasportati e ospedalizzati al Mote Marine Laboratory, in Florida. Il tentativo di recuperare un delfino spiaggiato è sempre disperato, e i casi di grampi restituiti al loro ambiente o almeno salvati da morte certa si contano sulle dita della mano. Soltanto altre due volte un grampo adulto è stato recuperato e, dopo mesi di cure, restituito al mare. Mentre il terzo caso di successo è proprio Mary G., la piccola di grampo trovata ad Ancona lo scorso giugno e salvata dalla Fondazione Cetacea, che ancora se ne occupa, nella sua vasca presso il parco Oltremare di Riccione.
A novembre un'ecografia rivelò che Bonnie era incinta. Ma il feto era morto, per lo stress subito dalla madre. Purtroppo anche Bonnie, lo scorso 3 febbraio, è morta. Questo ha accelerato il tentativo di ritorno in mare di Clyde, che infatti è stato rilasciato a 115 miglia al largo di Sarasota, l'11 febbraio.
Attaccato alla pinna dorsale ha un trasmettitore satellitare che comunica la sua posizione momento per momento, il che permette al personale e ai volontari che seguono la delicata operazione di monitorare i movimenti del delfino. Il ritorno in mare non è infatti per niente semplice, dopo mesi di ospedalizzazione.
Il "capo" di tutta l'operazione, Charles Manire, sarà a Riccione a metà marzo per il convegno europeo dell'E.A.A.M. e per la tavola rotonda organizzata dalla Fondazione Cetacea, a cui parteciperanno esperti mondiali che daranno il loro parere sul futuro di Mary G.
Noi intanto teniamo le dita incrociate per Clyde.