giovedì 25 gennaio 2007

Quelli come Mary G.

Molto probabilmente, se non fosse stato per il clamoroso spiaggiamento e successivo salvataggio della ormai famosa Mary G., molte persone forse nemmeno saprebbero oggi cosa è un grampo. Con questo nome, si indica una specie di delfino, il cui nome scientifico è Grampus griseus, che può raggiungere tranquillamente i quattro metri di lunghezza. Esso è caratterizzato da una testa particolarmente tondeggiante, solcata sulla “fronte” da una incisione a V, e senza il rostro, cioè il tipico “becco” pronunciato. Il grampo è noto e facilmente riconoscibile inoltre per avere una livrea grigia che nell'età adulta si ricopre progressivamente di striature bianche.
La specie è, ed è sempre stata, del tutto accidentale in Adriatico, sebbene già attorno al 1860 si collochi la prima segnalazione, alla quale si aggiungono, dal 1860 al 1900, altre quattro catture nelle acque del Veneto, una in Istria e quattro ancora nei pressi di Zara (Zadar) in Croazia. Tali sporadici avvistamenti continuano anche ai giorni nostri e, con l’eccezione di tre individui visti insieme nel 1993 nel Golfo di Trieste, normalmente sono sempre segnalazioni di esemplari singoli, forse smarriti o raminghi.
Questo ovviamente fino al giugno del 2005, quando Mary G. e sua madre si infilarono nel porto di Ancona, dove la femmina adulta, estremamente debilitata e malata, cercava probabilmente riparo per sé e per la piccola. Com’è noto vennero poi recuperate dalla Fondazione Cetacea e ospedalizzate all’ex Delphinarium di Riccione dove la madre morì dopo poche ore, mentre la piccola ribattezzata Mary G., protagonista di una gara di solidarietà senza precedenti, riuscì ad essere curata prima e svezzata e cresciuta poi dal Gruppo di Pronto Intervento della Fondazione Cetacea, fino al trasporto alla sua attuale casa, la laguna di Oltremare, e tuttora accudita dai trainer e dai volontari di Cetacea.
Mary G. è l’unico grampo in ambiente controllato al mondo, se si esclude il Giappone, ma non è l’unico grampo con cui ha avuto a che fare la Fondazione Cetacea nelle nostre acque.
Una femmina di 2,94 metri si è spiaggiata morta l’11 ottobre 1993 a Porto Garibaldi (FE), mentre un maschio di 2,98 metri si spiaggiò anch’esso già morto, il 18 marzo del 2002 a Cupra Marittima (AP). Incredibile come, oltre a Mary G. e alla sua mamma, altre due grampi si siano spiaggiati ancora vivi, in un breve lasso di tempo, sulle nostre coste. Il primo, un maschio, fu trovato il 3 luglio del 2000 alla foce del Bevano, nei pressi di Ravenna: misurava ben 3,25 metri. Il secondo, ancora un maschio di 2,98 metri, si spiaggiò a Lignano Sabbiadoro (UD) il 5 maggio 2001. Entrambi furono ospedalizzati dalla Fondazione Cetacea, ed entrambi morirono dopo pochi giorni.
Al contrario, come detto, della “fortunata” Mary G. ora affidata indefinitamente alla Fondazione dal Ministro dell’Ambiente.

Nella foto di Margherita Paoloni: Mary G.

venerdì 12 gennaio 2007

Il Grande Bianco nel piccolo Adriatico

Credo che esistano poche altre creature marine che colpiscono l’immaginazione come il grande Squalo bianco (Carcharodon carcharias). Questo squalo robusto, potente, veloce, dinamico e indubbiamente grande, raggiunge molto probabilmente i 7 metri di lunghezza, è lo squalo per eccellenza, nell’immaginario collettivo. Anche se purtroppo, soprattutto per motivi molto più legati alla paura che la sua bocca enorme e i suoi denti grandi, triangolari e affilati, suscitano in noi, che non per la meraviglia e il fascino che l’ecologia e il comportamento di questo grande predatore possono originare.
E’ sorprendentemente alto il numero di segnalazioni di Squalo bianco collezionate durante il diciannovesimo e la prima metà del ventesimo secolo, nell’Adriatico nord-orientale. Questi avvistamenti e catture, collocati principalmente nel golfo di Trieste e nell’area del Quarnaro, indicano che con ogni probabilità, nel periodo indicato, lo Squalo bianco fosse molto più frequente in queste acque che non in tutto il resto del Mediterraneo.
Ovviamente, per un predatore di tali dimensioni, è normale collegare la sua presenza in una data area, con la disponibilità di prede nella stessa area. Per cui si fa risalire l’allora intensa frequentazione di Squali Bianchi, con le numerose attività di pesca al tonno (vere e proprie tonnare) che si praticavano proprio in quell’area.
E forse proprio per lo stesso motivo (leggi cioè diminuzione drastica delle prede), oggi lo Squalo bianco è diventato solamente raro, se non addirittura sporadico, in Adriatico. Gli avvistamenti, meno di uno all’anno, di questo grande pesce suscitano sempre un grande clamore, con passaggi su media nazionali, e spesso proclamazioni di allarme, quasi sempre ingiustificate.
Il 20 settembre 1986, l’aliscafo che collega Rimini all’allora Jugoslavia avvista uno “squalo di circa sei metri”. Nei giorni seguenti l’animale viene ripetutamente avvistato e addirittura preso all’amo, ma la bestia spezza ben presto la lenza. Infine il motoscafo “Gatto nero” lo riavvista e lo fotografa: sì, è uno Squalo bianco.
Il 29 agosto 1997 un altro avvistamento fa scalpore. Sui telegiornali nazionali passano le immagini filmate di uno Squalo bianco che, 25 miglia al largo di Senigallia, addenta la carcassa di uno Squalo volpe appesa fuori bordo ad una barca di un pescatore sportivo che si vede divorare la preda appena pescata. Anche stavolta grande allarme e addirittura bandiere rosse in spiaggia…
L’estate successiva, nel 1998, un esemplare viene fotografato al largo di Giulianova, mentre per l’avvistamento fotografico successivo bisogna aspettare tre anni: agosto 2001, a Falconara.
L’anno dopo, settembre 2002, un pescatore al largo di Porto San Giorgio scatta diverse belle foto di un esemplare di 4,5 m circa, che “ronza” attorno alla barca, con tanto di classica pinna dorsale che fende l’acqua.
L’ultima segnalazione risale infine all’anno dopo, quando nel giugno del 2003, una femmina di 5,7 metri viene addirittura pescata nei pressi dell’isola di Jabuka, in Croazia (è quella che vedete nella foto). Il peso stimato era di 2,5 tonnellate.
Insomma, a dispetto di una presenza intensa a cavallo del XIX e XX secolo, attualmente questo affascinante bestione ci visita solo sporadicamente. E’ necessario aggiungere che questi avvistamenti devono suscitare solo stupore e interesse e non certo paura o timori per la balneazione?

giovedì 4 gennaio 2007

Tartarughe nella rete

Spesso si parla dell’impatto della pesca professionale, sulle popolazioni di tartarughe marine, anche su quelle del nord Adriatico. Sulle nostre coste, il numero elevato di spiaggiamenti fa pensare a molte catture accidentali di questi Rettili nelle reti da pesca. Ma un collegamento diretto è chiaramente difficile. Le tartarughe marine non sono oggetto di pesca, anche e non solo perché sono animali protetti, e quindi tutte le tartarughe pescate lo sono in maniera solo accidentale, e normalmente esse vengono ributtate in mare dai pescatori. Per questo motivo, ottenere informazioni precise su quante tartarughe vengano pescate è difficilissimo, a meno di non imbastire progetti di ricerca che prevedano o la preziosa collaborazione dei pescatori stessi, o imbarcando osservatori a bordo.
Studi di questo tipo sono pressoché assenti, quei pochi disponibili aprono finestre che permettono di farsi un’idea di quanto accade.
Nel biennio 1999 – 2000 un progetto co-finanziato dalla Comunità Europea, i cui risultati sono stati pubblicati nel 2004 (Casale P., Laurent L., De Metrio G. Incidental capture of marine turtles by the Italian trawl fishery in the north Adriatic Sea. Biological Conservation 119 (2004): 287–295), prevedeva l’imbarco di osservatori su pescherecci che utilizzavano reti a strascico e volanti, dai porti di Chioggia, Cesenatico, Fano e Ancona. La ricerca ebbe l’insostituibile collaborazione di 12 barche attrezzate per la pesca a strascico e 20 barche, cioè 10 reti, che pescavano con le volanti (le reti volanti infatti vengono trainate da due barche per volta). Lo studio comprese 415 giorni di pesca, per un totale di 2057 calate.
Un dato importante è anche quello relativo alla durata delle calate. Le tartarughe infatti respirano aria, ciò significa che quando vengono intrappolate in una rete, sono forzatamente costrette a mantenere l’apnea. Se la durata della cala è superiore alla loro resistenza, la tartaruga annega o, per bene che le vada, entra in stato comatoso. La durata della cala quindi incide anche sulla mortalità della pescata stessa.
A Chioggia e a Cesenatico le cale duravano in media 2 ore e quaranta minuti, erano quindi molto lunghe. Meno di due ore invece era il tempo medio delle calate per le barche degli altri due porti.
Dalle barche che ospitavano gli osservatori furono catturate un totale di 62 tartarughe. Ben 55 di esse solo da vascelli della flotta di Fano, la quale pesca molto più a est rispetto a quelle delle altre marinerie indagate. In pratica gli autori rilevano che pescano nella parte più orientale del bacino, la possibilità di catturare tartarughe è 15 volte superiore rispetto alle acque più prospicienti la costa italiana. Ma in quest’ultima zona, dove abbiamo visto le calate durano molto di più, il 10% delle tartarughe vengono issate a bordo già morte, mentre un terzo del totale sono in stato comatoso.
Ma è il dato conclusivo della ricerca che è ancora più preoccupante. I ricercatori calcolano che vengono pescate 0,0195 tartarughe per ogni calata, dato difficile da “leggere” ma che se rapportato al numero di battelli e dei giorni di pesca all’anno, porta al valore di 4273 tartarughe pescate all’anno, dalle reti a strascico, solo nelle acque dell’Adriatico nord occidentale! Di queste il 10% muoiono direttamente nella rete e un altro 30% (quelle in stato comatoso) si suppone facciano la stessa fine una volta rilasciate in mare.
D’accordo, stiamo parlando di cifre, proiezioni, calcoli matematici, quindi con margini di errore che possono essere anche elevati, ma comunque dati preoccupanti che meriterebbero almeno indagini più approfondite e durature.