martedì 27 marzo 2007

Squali al mercato

E’ abbastanza facile, riflettendoci un po’, capire quanto sia difficile compiere studi scientifici sugli squali. Come tutti gli animali marini, vivono in un ambiente che decisamente non è il nostro, e nel quale noi ci muoviamo a fatica e solo con l’ausilio di attrezzature, siano esse imbarcazioni o attrezzature subacquee, per esempio. Inoltre, se vogliamo fare il confronto rispetto allo studio di Cetacei e tartarughe marine, gli squali sono difficilissimi da avvistare in mare (non devono venire in superficie a respirare come delfini e tartarughe). Inoltre, avendo un intestino molto breve, quando muoiono, i gas della putrefazione non riescono a sollevarli in superficie, per cui di fatto, gli squali non si spiaggiano. Per avere campioni per la ricerca non resta allora che imbarcarsi con i pescatori, oppure “aspettare” i campioni stessi al mercato ittico. Resta comunque una enorme lacuna di studi di questo tipo, anche nelle frequentatissime coste alto-adriatiche.
Una piacevole sorpresa è stata dunque ricevere una tesi di laurea, della ora dr.ssa Caterina Lanfredi, dell’Università di Padova, sull’analisi del pescato di squali presso il mercato ittico di Chioggia.
Il lavoro è molto interessante e prende in considerazione il pescato di Elasmobranchi (squali e razze) dal 1945 al 2002, ottenuto dalla marineria di Chioggia. Un primo problema, lavorando con i mercati ittici, è la mancata definizione delle specie precise di squali pescati, che vengono invece raggruppati in categorie, con nomi comuni anche abbastanza curiosi. Nel lavoro in questione le categorie erano: cani, cani palombi, cani spinaroli, cani volpe, cani canesca (fino al 1996 questi primi cinque gruppi erano riuniti sotto il nome di asià) poi gatti e razze. Ci sono poi altre due categorie: gli smerigli e i cani spellati. Questi ultimi raggruppano tutti gli squali giunti al mercato privi di pelle (per eliminare l’odore tipico di ammoniaca). Come si vede, fare una ricerca scientifica usando queste categorie, non pare troppo semplice…
Al di là del folklore di queste nomenclature, interessanti sono invece i dati ottenuti. Soprattuto in alcune categorie, evidenti sono i cali nei quantitativi pescati. Per i “cani volpe”, cioè gli squali volpe, ad esempio, si passa dai 600-1000 kg alla fine degli anni ’90, a meno di 200 kg nel 2002.
Per i gatti (squali gattuccio e gattopardo) i valori sono in crescita dal 1945 (5 tonnellate) al 1970 (35 tonnellate). Poi la drammatica diminuzione, decisa e costante per attestarsi su valori di meno di mezza tonnellata, dal 1986 in poi. Valori preoccupanti anche per le razze, che passano dalle 10-14 tonnellate prima del 1950, alle 2 tonnellate del 2002.
Questi andamenti, di per di sé decisamente preoccupanti, sono almeno in parte mitigati se associati al cosiddetto sforzo di pesca (dati resi disponibili dal 1992). Infatti va rilevato come il numero di pescherecci della flotta chioggiotta, sia passato dalle 500 unità nel 1992 alle 380 del 2001. Questo calo è dovuto alle agevolazioni fiscali sul disarmo e dagli incentivi alla rinuncia dell’autorizzazione alla pesca professionale previsti dalla Comunità Europea. Resta comunque il fatto che la flessione evidente in alcune popolazioni di razze e squali adriatici non possa essere associata solo alla diminuzione del numero di pescherecci attivi.
Un ulteriore dato che emerge da questo lavoro è, ancora una volta, la lampante mancanza, e quindi stringente necessità, di un maggior numero di studi e ricerche di questo tipo.

mercoledì 21 marzo 2007

Il ristorante delle Tartarughe

Abbiamo già ricordato più volte come ci sia un’intensa frequentazione di tartarughe marine, della specie Caretta caretta, in Adriatico. Questo flusso continuo di Tartarughe comuni che giungono da sud, cioè da mari più caldi dove anche si riproducono, è rappresentato da una popolazione di individui, in genere giovani o molto giovani, che vengono in queste acque principalmente a nutrirsi.
L’Adriatico rappresenta quindi una cosiddetta feeding area, cioè un territorio di alimentazione. E’ noto infatti come soprattutto la parte settentrionale di questo mare, sia un sistema molto ricco di nutrienti, in buona parte grazie al Po, che danno origine a una catena alimentare molto ricca, delle quali approfittano molte specie.
Inoltre le Tartarughe comuni sono, per loro natura, una specie decisamente opportunista, il che significa in pratica che mangiano un po’ di tutto, e che si adattano facilmente al tipo di ambiente, e di prede, che trovano. Il loro becco, detto ranfoteca, robusto e tagliente, permette loro di nutrirsi di prede che variano moltissimo come dimensioni e come forma.
Come sappiamo cosa mangiano le tartarughe che frequentano l’Adriatico? Questo tipo di studi vengono condotti nella maniera forse più… logica. Cioè si analizzano i contenuti degli stomaci delle tartarughe pescate o trovate morte in spiaggia. Un tipo di ricerca magari scomoda, ma che dà importanti informazioni.
Non ci sono purtroppo molti studi pubblicati, in particolare proprio nel nostro mare. Ma, ad esempio, un lavoro pubblicato nel 2000 da ricercatori croati mostra risultati curiosi. Esso si basava sullo studio dei contenuti stomacali di solo quattro esemplari di tartarughe rinvenute spiaggiate.
Ebbene, i resti trovati negli stomaci di questi esemplari, si potevano dividere in ben dieci categorie di prede diverse, a dimostrazione proprio di una dieta veramente opportunista.
La preda maggiormente presente è rappresentata, forse a sorpresa, da ricci di mare. Essi costituivano addirittura i due terzi (67%) del peso dei contenuti stomacali. Evidentemente le spine appuntite di questi animali non sono un problema per la bocca robusta e l’esofago “rinforzato” delle tartarughe.
La seconda preda preferita erano spugne, fra le quali spiccava come quantità, la cosiddetta Arancia di mare. Anche in questo caso, avere un becco capace di grattare e scrostare le rocce si rivela un utile strumento. Altre prede trovate in misura minore comprendevano Crostacei (soprattutto paguri), policheti (cioè vermi), e lumache. Non mancavano anche alghe e rifiuti raccolti sul fondo.
E’ bene ricordare che questa dieta, ricavata da uno studio in acque croate, nel caso di una specie che mangia di tutto come la tartaruga comune, non è rappresentativa della specie. Studi compiuti in altri mari darebbero diete molto diverse. D’altra parte mentre in Adriatico questi animali possono scendere sul fondo e alimentarsi facilmente letteralmente pascolando, in acque profonde la dieta cambia radicalmente, fino ad arrivare a mangiare anche solo pesci, in acque dove il fondo non è a portata di bocca.
A dimostrazione di questo, uno studio condotto dalla Fondazione Cetacea in collaborazione con l’Università di Bologna, sede di Cesenatico, su Tartarughe sempre adriatiche ma di sponda italiana. L'analisi è appena iniziata ma già i primi risultati mostrano differenze con quanto trovato dai ricercatori croati. Nei nostri esemplari maggiormente rappresentati sono crostacei e molluschi, quindi sempre animali di fondo ma più comuni su fondali sabbiosi e non rocciosi.
Vedremo, col proseguire delle indagini, se il menù diverrà maggiormente ricco.

martedì 13 marzo 2007

L'Europa e le pinne di squalo

Ho già scritto, qua e là, della pratica, crudele e insensata, del finning. Finning significa pescare gli squali per tagliare loro le pinne, che poi vanno sul mercato orientale per la tradizionale zuppa di pinne di pescecane (shark fin soup). Questa pratica è tremenda perchè consente anche a piccole imbarcazioni di fare grandi bottini, non dovendo riempire la barca con tante carcasse di squalo, ma mantenendo appunto a bordo solo le pinne (e spesso ributtando in mare lo squalo ancora vivo, destinato a morire sul fondo). Il mercato delle pinne "tira" molto forte, gli interessi economici, soprattutto per paesi poveri, sono molto allettanti e quindi la strage continua.
La Comunità Europea ha proibito nel 2003 la pratica del finning per tutte le imbarcazioni nelle proprie acque e per le imbarcazioni europee in tutto il mondo.
Purtroppo questi regolamenti, così come sono scritti, non sono efficaci.
La legge europea prevede che il rapporto fra il peso delle pinne e quello degli squali interi pescati sia del 5%. Attenzione però, ecco dove sta la fregatura: mentre negli Stati Uniti e in Canada questo rapporto è sul peso dell'animale eviscerato, in Europa è sull'animale intero. La differenza sembra minima ma è fondamentale. Usare il peso dell'animale intero significa di fatto consentire un maggiore peso di pinne. Consentire il 5% di pinne sul peso dell'intero animale, significa permettere il 10% o più di pinne sull'animale eviscerato, cioè il doppio di quanto stabilito, con criteri scientifici, in USA e in Canada.
Tra l'altro, molte altre nazioni, sull'esempio (pessimo) dell'Unione Europea, non specificano nei loro regolamenti se il 5% sia sul peso intero o eviscerato. Questo vanifica l'efficienza delle leggi anti-finning su scala globale.
Ancora, sul mercato in genere si vendono soprattuto la prima pinna dorsale, le pettorali, e il lobo inferiore della coda (e quindi non il lobo superiore della coda, le pelviche e eventualmente la seconda dorsale). Se il 5% sul peso eviscerato è quanto si ritiene sia il peso di tutte le pinne, prendendone solo una parte posso in pratica aumentare il numero di squali uccisi. Questo fatto è favorito dal regolamento europeo che consente di poter sbarcare pinne e carcasse anche in porti diversi (evitando così la diretta comparazione fra pinne tagliate e squali effettivamente pescati). Se volete saperne di più potete scarivarvi il documento "Shark Alert".

mercoledì 7 marzo 2007

Moby Dick in Adriatico

E’ il più affascinante, il più sbalorditivo, il meno “compreso” dei Cetacei viventi. E’ il capodoglio (Physeter macrocephalus). Il capodoglio è un animale totem, una specie che attira studi e ricerche in tutto il mondo e della cui biologia e fisiologia conosciamo ancora molto poco, soprattutto perché è talmente fuori dal comune, che in qualche modo “spiazza” i ricercatori.
In questa specie il maschio può raggiungere i 18 metri di lunghezza e 57 tonnellate di peso. La femmina, molto più piccola, può arrivare a 12.5 metri e pesare fino a 24 tonnellate.
Si trova nei mari temperati di tutti il mondo, compreso il Mediterraneo dove abita soprattutto il bacino occidentale. La forma del capodoglio è inconfondibile. Ha un capo enorme che costituisce fino a un terzo dell’intera lunghezza dell’animale. Lo sfiatatoio è unico e posizionato all’estremità sinistra del capo. La pinna dorsale è bassa, arrotondata e una serie di gibbosità minori la seguono, digradando verso la coda. Le pinne pettorali sono corte e larghe. La pinna caudale, di forma triangolare, è molto larga.
La componente principale della sua dieta è rappresentata da calamari, grandi e piccoli, che si trovano nelle zone adiacenti alla scarpata continentale.
Ma quello che sorprende di più è che il capodoglio è in grado di immergersi per un tempo superiore alle due ore e raggiungere i 3000 metri di profondità. E’ ovvio che per un animale del genere, abituato all’abisso sotto di sé, le acque dell’Adriatico non rappresentino una particolare attrattiva. In effetti in questo mare la specie è meno che occasionale. Eppure una ricerca storica svolta dalla Fondazione Cetacea in accordo anche con i Musei di Lubiana (Slovenia) e Zagabria (Croazia), qualcosa ha scoperto. Sono state ricercate negli archivi storici e nelle collezioni museali le segnalazioni di spiaggiamenti, avvistamenti e catture del grande cetaceo avvenute lungo le coste dell'Adriatico centrale e settentrionale. E ne sono state contate ben 48 a partire dal 1555.
I primi rapporti rintracciati risalgono addirittura al 16° secolo con un esemplare descritto per l'Istria e raffigurato in un volume custodito a Lubiana. Spiaggiamenti e avvistamenti singoli si rincorrono poi per tutto il 17 e 18 secolo. Si fanno poi decisamente notare la cattura di 6 esemplari a Cittanova (Croazia) nel 1853 e l’incredibile spiaggiamento di ben 7 esemplari a Marzocca (Ancona) del 1938. Molti, in generale, gli spiaggiamenti nelle Marche (Pesaro e Fermo più volte, poi Fano, Ancona, Porto San Giorgio, Ascoli). Come non ricordare poi il capodoglio spiaggiatosi a Rimini nel 1943, che la leggenda (?) vuole si stato trasformato in… saponette? E Rimini torna ancora protagonista per il più recente spiaggiamento della serie, l’esemplare di circa 9 metri ritrovato il 29 gennaio 2005.
La caccia industriale ha ridotto, nel XX secolo, di circa un terzo il numero di capodogli. Oggi i capodogli non sono più cacciati a scopo commerciale, o almeno non dovrebbero. I pericoli odierni sono rappresentati dalle reti derivanti e nel Mediterraneo, dall’intenso traffico di mezzi di linea ad alta velocità. Si stima che attualmente ci siano, nei mari del mondo, circa 1.900.000 capodogli.