giovedì 28 febbraio 2008

Prese per il bekko

I gusci di tartaruga sono stati circondati da un'aura di leggenda per secoli, forse millenni. Il commercio di questi tristi reperti, utilizzati per produrre oggetti di ogni tipo, soprattutto gioielli, ha origini antichissime ed ha continuato a fiorire fino al 19esimo secolo. Dal 1700 in poi i giapponesi si sono affermati come i più abili artigiani nella lavorazione dei bekko, cioè i gusci di tartaruga.
Dal 1950 al 1992 più di un milione e trecentomila tartarughe embricate adulte, le più pregiate per la meravigliosa colorazione del loro carapace, e 575.000 giovani esemplari, sono stati importati in Giappone (vedi mappa in fondo, tratta da SWOT Report n. III) . Con la Convenzione di Washington (Cites) del 1975 il commercio di gusci di tartaruga è vietato nelle nazioni che hanno ratificato tale convenzione. Al momento dell'approvazione della Cites, 45 nazioni erano coinvolte in questo mercato. A mano a mano che le nazioni siglavano la convenzione il commercio è lentamente diminuito. Ma mai cessato, anche perchè il Giappone quando entrò nella Cites, nel 1980, chiese una eccezione al divieto di commercio dei gusci.
Il Giappone aveva anche promesso di insegnare e proporre mestieri alternativi a centinaia di artigiani che lavorano i bekko, ma non l'ha mai fatto e anzi ha sostenuto molti sforzi, per fortuna senza successo, per riaprire il commercio. Gli stock dovrebbero essere ormai esauriti ma l'industria degli oggetti di tartaruga non rallenta anche perchè la richiesta di gioielli, montature di occhiali e altri oggetti in tartaruga è sempre elevata. Il governo giapponese intanto finanzia abbondantemente la ricerca sulle tartarughe embricate nella speranza di riaprirne il commercio. Nel 2007 infine ha annunciato che l'industria dei bekko proseguirà per altri cinque anni.
L'unica strada è l'educazione, se nessuno comprasse più oggetti fatti con gusci di tartaruga, l'industria ne morirebbe da sola.

martedì 26 febbraio 2008

Lavorare in Madagascar

I miei amici di Universo Acqua cercano laureati in scienze naturali o biologiche, con conoscenza della lingua francese e inglese, per attività di educazione ambientale e divulgazione in Madagascar, nel periodo 31 marzo - 30 giugno 2008. Potete mandare un c.v. dettagliato all'indirizzo email: info@universoacqua.com.
Per informazioni: 0392310816

venerdì 22 febbraio 2008

Tesori adriatici nascosti

L’abate Giuseppe Olivi, nel 1792 completava la sua opera di studio delle popolazioni biologiche dell’Adriatico, e pubblicava dunque la sua “Zoologia Adriatica”. Ad un certo punto del suo libro Olivi dice che “vi abbondano gli animali coperti d'integumenti duri per lo più calcarei, i quali decomponendosi contribuiscono di nuovo a formare concrezioni parimenti calcaree, che rendono quei letti ineguali ed aspri ...”. Insomma parla di concrezioni calcaree, di origine animale, che rendono i fondali, in alcuni punti, appunto ineguali e aspri.
Queste formazioni rocciose sono le tegnùe. La parola tegnùe o tenùe è veneta e significa “trattenute”. Il nome fu proprio affibbiato dai pescatori a queste rocce affioranti, a causa della loro capacità di trattenere le reti da pesca che appunto vi restavano impigliate. Anche se poi sono sempre state apprezzate dai pescatori stessi per la loro elevata pescosità.
Le tegnùe sono uno dei tesori nascosti del nostro Adriatico. Ed è molto strano che, nonostante la loro particolare popolazione biologica – in pratica sono delle mini-barriere coralline – siano state studiate solo a partire dagli anni sessanta.
Di tegnùe ve ne sono un po' in tutto l'Adriatico settentrionale, a profondità variabili dai 10 ai 40 metri, e in genere sono orientate in direzione parallela alla costa. Hanno dimensioni che vanno dai piccoli massi isolati fino a formazioni estese per centinaia di metri.
Le formazioni più estese e meglio conosciute sono quelle al largo di Chioggia. Queste rocce sono organogene carbonatiche, cioè costruite negli ultimi 3-4000 anni dagli organismi marini, generalmente sopra a substrati duri preesistenti formatisi per il consolidamento di sabbie. Si tratta in pratica come si diceva di vere e proprie barriere coralline naturali, solo che non sono coralline, in quanto i principali organismi costruttori qui non sono i coralli ma bensì le alghe rosse calcaree, chiamate "Corallinacee".
Ovviamente, un po’ come succede con i relitti, o con le basi delle piattaforma metanifere, questi substrati duri danno la possibilità a molte forme di vita di svilupparsi, dando origine a piccoli ecosistemi davvero ricchi e interessanti. Così questi affioramenti sono delle piccole isole di colore e di vita, che rompono la “monotonia” dei fondali più o meno uniformemente sabbiosi del nord Adriatico.
Vi si trovano spugne, ascidie coloniali e anemoni, tutti molto vari e colorati. Sono poi abitate da ofiure e crostacei, dai piccoli paguri agli astici. Tra i pesci è possibile osservare una moltitudine di bavose, castagnole, sacchetti e scorfani, non mancano i grandi gronghi e le corvine. Spesso è possibile osservare banchi di merluzzetti che volteggiano intorno alle rocce.
Nell’area di Chioggia, il valore naturalistico di questo habitat è stato riconosciuto e protetto con l'istituzione, nell'agosto 2002, di una Zona di Tutela Biologica che ha introdotto il divieto di pesca. L'area protetta è stata promossa dal Comune di Chioggia, da Enti di ricerca ed Università, dalla Regione Veneto, dal Ministero per le Politiche Agricole e Forestali, dalla Capitaneria di Porto, dalle associazioni dei pescatori e dagli operatori turistici, che oggi operano insieme nell'Associazione Tegnùe di Chioggia onlus (dal cui sito è tratta la foto, di Piero Mescalchin, che vedete in alto).

lunedì 18 febbraio 2008

L'impatto dell'uomo sui mari del mondo

I ricercatori del National Center for Ecological Analysis and Synthesis di Santa Barbara, in California, hanno elaborato una mappa molto esplicativa e purtroppo poco incoraggiante sull'impatto che le attività umane producono sui mari di tutto il mondo. La vedete cliccando sull'immagine qui di fianco.
Come hanno ottenuto questa mappa? In quattro fasi.
Semplificando molto:

1. Hanno raccolto o creato delle mappe di tutti i tipi di attività umane che hanno un impatto sulle comunità e sugli ecosistemi marini. Hanno usato mappe con 17 diverse attività umane e 14 distinti ecosistemi.
2. Hanno stimato, sulla base di pubblicazioni esistenti, la vulnerabilità dei diversi ecosistemi (mangrovieti, barriere coralline, etc.) rispetto ognuna di queste attività. Ad esempio i fertilizzanti hanno un grosso impatto sulle barriere coralline e piccolo sulle foreste di kelp.
3. Hanno poi "sovrapposto" tutte queste mappe.
4. Infine hanno calcolato gli indici di impatto.

Come vedete dalla mappa, sebbene le aree con un impatto molto alto (Very High Impact) non sono nemmeno tante rispetto alla vastità degli oceani, è scoraggiante vedere quanto siano poche le aree con impatto molto basso (Very Low Impact). Il quadro generale è a tinte davvero fosche. L'uomo si conferma come la specie meno sostenibile mai esistita.

Con GoogleEarth si può anche analizzare la mappa più nel dettaglio. E così si scopre quanto il "mio" Adriatico (vedi sotto) sia conciato male, anche rispetto al Mediterraneo, che comunque non è noto per essere uno dei mari più sani del mondo, anzi...
Per la verità mi aspettavo una distribuzione del colore diversa, in Adriatico. Capisco le zone "rosse" dovute soprattutto (immagino) all'intensa attività di pesca, ma mi stupisce un po' la colorazione chiare delle acque sottocosta. Con la popolazione umana che vive su queste coste, c'era da aspettarsi forse di peggio.

mercoledì 13 febbraio 2008

Meno male, era una bufala...

Stamattina mentre venivo al lavoro, ho sentito alla radio una notizia che mi pare fosse presa dal quotidiano Libero (e se fosse così, bisognerebbe pensare a cosa pubblicano i nostri quotidiani...). Si diceva che in Australia un pescatore si è trovato due anni fa nella rete una femmina di squalo bianco lunga 5 metri. Invece di ucciderla l'ha liberata in mare e da allora l'animale, riconoscente, lo segue ovunque.
Arrivato in ufficio ho fatto una ricerca veloce, e ho scoperto, leggendo per esempio qua, e ho scoperto che la notizia è ovviamente una bufala, pubblicata due anni fa da un giornale francese, come pesce d'aprile.
Meno male! Se anche The Great White mi si mette a fare le smancerie come gli stucchevoli delfini, dove andremo a finire?

venerdì 8 febbraio 2008

Il diritto di uccidere

Nello stretto di Juan de Fuca, l'angusto tratto di mare che si infila a sud della Vancouver Island, viveva fino a pochi mesi fa una balena grigia che era stata soprannominata "Kelpie". Era abituata a nutrirsi sul fondo di kelp, l'alga dalla lunghe foglie, e spesso queste foglie le rimanevano appese addosso: da qui il nome Kelpie.
Kelpie è stata uccisa i primi di settembre dell'anno scorso. Cinque uomini su una potente barca, l'hanno crivellata con 21 colpi di fucile e cinque arponi. Le ci sono volute comunque 10 ore di agonia per morire.
Quello commesso dai cinque uomini è un reato in violazione delle leggi federali. Eppure questi uomini si sentivano in diritto di uccidere la balena, perché i loro antenati uccidevano le balene. Essi provengono infatti dalla tribù Makah, dello stato di Washington, che fino ad ottanta anni fa, si sosteneva proprio con la caccia alle balene. Ma da 80 anni, quelle genti hanno cambiato abitudini, anche per la scarsità di balene grigie, e da allora non dipendono più dalla carne di questi animali. Questa infatti, la dipendenza diretta dalla caccia alle balene, è il criterio necessario per fare sì che le leggi federali e internazionali possano concedere una quota annuale di balene da cacciare, ai popoli che appunto per tradizione dipendono da questa caccia. Non è più il caso dei Makah. Alcuni membri di questa tribù però reclamano ancora questo diritto, rivendicando una "necessità culturale". E non sono poche le piccole popolazioni della costa che reclamano lo stesso diritto, facendo anche leva sulla "simpatia" che tali piccole popolazioni di nativi suscitano nell'opinione pubblica.
Ovviamente il Giappone - poteva mancare il Giappone? - sta spingendo perchè si affermi questa nuova forma di baleneria "culturale" e da anni chiede alla Commissione Internazionale per la Baleneria (IWC) che assegni una quota per le proprie popolazioni costiere. Ovviamente se i nativi americani otterranno la loro quota, il Giappone tornerà alla carica.
Le balene saranno anche importanti per la cultura dei Makah, ma sarebbero meglio che le integrassero in essa senza ucciderle. Perchè per esempio non "convertirsi" a una più sana e remunerativa pratica di Whale-watching commerciale?

lunedì 4 febbraio 2008

Il misterioso zifio

Fra le oltre settanta specie di Cetacei che vivono nei mari del mondo, alcuni sono veramente noti e conosciuti da tutti, altri lo sono un po’ meno. Ci sono poi alcune specie più o meno “per addetti ai lavori”. Di questi fanno parte per certo gli appartenenti alla famiglia degli Zifidi che prendono il nome dal loro rappresentante più caratteristico: lo zifio (Ziphius cavirostris).
Questo cetaceo dal corpo lungo e robusto può raggiungere anche i 7,5 metri, generalmente però le femmine restano sui 6 metri ed i maschi sono leggermente più piccoli. Possiede una testa relativamente piccola con la fronte che degrada senza spigoli verso un corto rostro. Nella mascella inferiore, più prominente di quella superiore, sono localizzati un unico paio di denti, visibili a bocca chiusa solo nei maschi. Le pinne pettorali sono piccole mentre la pinna dorsale può variare nella forma da alta e falcata a bassa e triangolare. La colorazione del corpo può subire notevoli variazioni in base all'area geografica, al sesso e all'età, ad esempio i vecchi maschi possono essere completamente bianchi e venire confusi con beluga e grampi; inoltre il corpo è ricoperto da profonde cicatrici individuo specifiche.
Contrariamente a quanto si può pensare è specie comune in Mediterraneo ma assente in Adriatico. Eppure, sebbene rarissimi, ci sono casi di segnalazioni e spiaggiamenti anche nel nostro mare, anche molto recenti. Nel 1986 e nel 1992 due carcasse furono trovate spiaggiate nei pressi di Bari.
Ma anche nel nord Adriatico abbiamo qualche interessante segnalazione. In un recente articolo i ricercatori dell’Università di Zagabria segnalano due eventi eccezionali.
Dal 7 marzo all’11 aprile 2001 infatti, nelle basse acque di Srebreno, poco a sud di Dubrovnik, in Croazia, un grosso cetaceo fu ripetutamente avvistato. A volte fu visto avvicinarsi anche moltissimo alla spiaggia o a qualche imbarcazione. Il 12 aprile fu infine trovato morto, che galleggiava in acqua. Si trattava proprio di uno zifio, una femmina di 4,30 metri per 610 chilogrammi.
L’anno dopo, il 7 febbraio 2002, sulla spiaggia di Pupnatska luka, sull’isola di Korcula, sempre in Croazia, fu rinvenuta la carcassa di un altro zifio. Stavolta era un maschio di 5,10 metri e il peso fu stimato attorno alla tonnellata.
A tutto ciò va aggiunto un altro avvistamento che, sebbene mai definitivamente accertato, pareva trattarsi proprio di uno zifio. Come scrivevo in uno dei primissimi post di questo blog (più di due anni fa, mamma mia!), il 29 dicembre 2005, infatti uno strano "cetaceo" è stato fotografato dal nostro collaboratore della Protezione Civile di Numana, Luca Amico, a poche decine di metri dalla costa fra Fano e Senigallia. Lunghezza attorno ai 3,5 - 4 metri.
L’animale emergeva solo per brevi momenti e non ha mai mostrato né la coda né la testa, e non si è mai vista una pinna dorsale. Raramente era visibile un piccolo "sbuffo".
Qualcuno, venti giorni prima aveva già raccontato di avere visto, nella stessa zona, uno o due esemplari, senza la pinna dorsale ma con una specie di "gobba".
Successivamente, lavorando sul materiale fotografico dell'avvistamento del 29 dicembre abbiamo trovato una foto in cui, sebbene da lontano, si vede parzialmente la testa del misterioso cetaceo. Quello che colpisce è lo stacco netto fra il bianco della testa e lo scuro del resto del corpo. Questo, unitamente al fatto che non si vede la pinna dorsale, il che vuol dire che essa si trova molto indietro sul dorso, particolare tipico di questa specie, può davvero fare pensare ad uno zifio. Come si vede, anche in Adriatico, non ci facciamo mancare niente.